Avere le risorse per una vecchiaia economicamente serena diventa una priorità per chi vive in un Paese dove non esiste un sistema di previdenza pubblico. Ecco che, senza una copertura pensionistica adeguata, l’obiettivo di costruire un capitale per il proprio sostentamento una volta giunti al termine del proprio percorso lavorativo è assolutamente una priorità nella pianificazione finanziaria della propria vita.
Questo obiettivo è talmente importante che si è ritenuto opportuno attribuire il termine specifico di “pianificazione previdenziale”.
In Italia fino a pochi anni fa non c’era il bisogno di preoccuparsi di verificare se la pensione che si sarebbe percepita sarebbe stata sufficiente per condurre una vita dignitosa. Soprattutto se ciò riguardava persone che nel corso della propria esistenza avevano sempre (o quasi) avuto un’occupazione e, allo stesso tempo, provveduto al regolare versamento dei cosiddetti contributi previdenziali.
Bastava guardare quanto stesse percependo chi già godeva della pensione per capire grossomodo cosa sarebbe successo non appena arrivato il momento di ritirarsi dal mondo del lavoro. Questa certezza ha accompagnato per decenni le generazioni che ci hanno preceduto, senza ragioni di essere smentita… sino a ieri.
Già oggi la situazione è diversa. Il legislatore si è accorto che il meccanismo di calcolo precedentemente utilizzato non è sostenibile a causa, innanzitutto, delle dinamiche demografiche (la popolazione invecchia mentre il tasso di fecondità è bassissimo), per cui è dovuto ricorrere ai ripari facendo delle “riforme”.
Il sistema di calcolo è cambiato e le future pensioni saranno più basse rispetto a quanto siamo stati abituati a vedere. Inoltre, l’innalzamento dell’età media di sopravvivenza ha richiesto un prolungamento della vita lavorativa e tutto ciò ha portato ad un inevitabile conflitto generazionale (i genitori sono costretti a lavorare più a lungo ed i figli a rimanere disoccupati).
Quindi, riassumendo, andremo tutti in pensione più anziani e con una pensione più povera.
Ma è questa l’unica prospettiva che ci attende? Fortunatamente no, esiste un’alternativa ma spetta a noi costruircela.
Abbiamo, infatti, la possibilità di ritirarci prima dal mondo del lavoro ma a condizione di percepire una pensione ancor più bassa… il che diventa accettabile solo affiancando alla pensione pubblica un’altra pensione (quella privata, detta anche “complementare”).
Capire quanto percepiremo come pensione pubblica non è cosa semplice, ma per fortuna ci aiuta l’INPS (Istituto Nazionale di Previdenza Sociale).
Tuttavia, le stime che l’INPS effettua nel calcolare i nostri contributi previdenziali futuri (che servono per calcolare la nostra pensione) sono fin troppo ottimistiche e per tale ragione vanno prese con circospezione.
Viene anche calcolato il “tasso di sostituzione”, ossia il rapporto tra la nostra pensione ed il nostro ultimo stipendio (sempre ottimistico).
Da qui la prima delusione: scopriremo che la nostra pensione sarà parecchio inferiore a quanto ci attendevamo. Quindi nasce la necessità di aumentare queste somme. Quanto e come farlo è un fattore assolutamente soggettivo e fa parte della pianificazione previdenziale.
La seconda delusione sarà rappresentata dalla data a partire dalla quale potremo smettere di lavorare.
È fondamentale acquisire il prima possibile consapevolezza su cosa ci attenderà, per avere tutto il tempo di mettere in atto le attività per integrare la pensione pubblica e dopo una vita di fatiche iniziare il prima possibile a godere del meritato riposo.
Fare questo mentre si è giovani (l’ideale sarebbe iniziare appena si è assunti) permette di fare versamenti mensili nel proprio fondo pensione di importo relativamente contenuto. Attendere o disinteressarsene può diventare molto pericoloso perché potrebbe richiedere degli sforzi enormi se non addirittura impossibili (si calcola che per raggiungere lo stesso obiettivo avendo a disposizione 20 anni anziché 30 richieda uno sforzo più che doppio; avere 10 anni anziché 20 la somma mensile da accantonare è quasi triplicata).
Gli strumenti per garantire la nostra serenità economica quando non lavoreremo più vengono chiamati i “pilastri della previdenza” e sono 3 (immaginate uno sgabello che per stare in piedi ha bisogno di almeno 3 gambe).
Il primo pilastro (forse perché è quello più antico) è quello pubblico, di cui abbiamo già parlato essenzialmente nei paragrafi precedenti ed abbiamo capito che da solo non basta.
Il secondo pilastro è rappresentato dai fondi pensione. Ne esistono di due tipi: quelli “chiusi” sono riservati ai lavoratori dipendenti che appartengono a determinate categorie professionali per i quali sono stati previsti dai contratti nazionali di categoria; i fondi pensione “aperti”, lo dice la parola stessa, sono invece disponibili per tutti (incluso chi non lavora, come le casalinghe o le persone fiscalmente a carico).
Spesso mi capita di incontrare lavoratori dipendenti che si limitano a versare nel fondo pensione il TFR ed il contributo del datore di lavoro, ma non sfruttano le detrazioni fiscali dei contributi volontari.
Infine, il terzo pilastro è costituito dai piani di accumulo che liberamente un risparmiatore può destinare alla costituzione di un capitale da poter utilizzare per ritirarsi anticipatamente dal lavoro e/o per integrare la propria pensione.
Tre strumenti (uno pubblico di tipo obbligatorio e due privati a adesione facoltativa) tra loro complementari per consentirci di andare in pensione, magari con qualche anno di anticipo e con una bella pensione.
La quantità di risparmio da destinare alle forme di previdenza complementare potrebbe essere di importo costante (situazione maggiormente diffusa, ma non sempre la più efficiente), di importo variabile crescente (fortemente suggerita per sfruttare l’opportunità di aumentare i versamenti ogniqualvolta il proprio reddito aumenta), oppure di importo variabile decrescente (difficile da realizzare, sebbene sia quella finanziariamente più efficiente).
Inoltre, sia per i fondi chiusi che per quelli aperti sono previste diverse linee di investimento, inclusa una garantita (obbligatoria per legge).
Molte persone finanziariamente inesperte, lasciate sole a sé stesse nel prendere una decisione complessa e delicata quale la scelta della destinazione del TFR, nell’indecisione su cosa sia meglio fare e per paura di perdere denaro, decidono di accantonare somme destinate a rimanere investite per un lunghissimo periodo sulla linea garantita, precludendosi in questo modo una rivalutazione molto importante, talmente importante che potrebbe superare il capitale investito (in altre parole si parla di centinaia di migliaia di euro di guadagno che non otterranno).
La logica che dovrebbe guidare la decisione sulla linea di investimento da utilizzare dovrebbe invece privilegiare gli investimenti nell’economia reale sin quando il termine per andare in pensione non inizia ad avvicinarsi, per poi procedere gradualmente verso forme di debito garantito prima a media e poi a breve scadenza, con la linea garantita da utilizzare solo negli ultimissimi anni.
Poi ci sono aspetti fiscali e successori, nonché vincoli di impignorabilità ed insequestrabilità che vanno opportunamente valutati caso per caso che non rendono ulteriormente semplice la decisione.
Da ultimo la scelta, da compiere solo nel momento in cui si sono maturati i requisiti pensionistici pubblici, se continuare a versare nel fondo pensione (opzione possibile e non del tutto insensata, anzi in alcuni casi vera e propria opportunità) oppure chiedere l’erogazione in forma di capitale (la più richiesta dagli italiani, quando invece potrebbe essere un grave errore) e/o in rendita vitalizia (su una o due teste).
Ecco il motivo per cui è opportuno farsi affiancare da un professionista competente che possa accompagnare il risparmiatore lungo tutto il percorso previdenziale, a partire dalle varie fasi di contribuzione fino ad arrivare a quella di erogazione.